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La solitudine tecnologica degli IGen

Data: 26/06/2018
Categoria: Altre News

Sono le nuove truppe generazionali, nate tra il 95 e il 2012,  arruolate dalla tecnologia: ragazzi sempre più infelici e soli.

Dopo i Millenials arriva la generazione deii nati tra il 1995 e il 2012, ovvero tra la quotazione in Borsa di Netscape e l’anno in cui la quota di americani che possedeva uno smartphone ha superato il 50 per cento. iGen li ha battezzati Jean Twenge, psicologa alla San Diego State University, prendendo a prestito il prefisso tipico dei più iconici apparecchi Apple. Causa dell’influenza tecnologica e dei social media, crescerebbero «meno ribelli, più tolleranti, meno felici e del tutto impreparati a diventare adulti». Si tratta di uno degli atti d’accusa più virulenti nei confronti degli effetti della tecnologia digitale sulla nostra psiche. In un intervista rilasciata a Repubblica la docente , autrice del libro “Iperconnessi” , statistiche USA alla mano, incalza ”I quattordicenni che passano 10 o più ore alla settimana sui social hanno il 56 per cento più probabilità di dichiararsi infelici rispetto ai coetanei che ci passano meno tempo. I motivi sono tanti, mi limito a citarne un paio. Intanto perché l’uso eccessivo dello smartphone di notte interferisce negativamente con il sonno, precondizione di ogni benessere psichico. E poi ricordo che, dal 2000 al 2015, il numero di ragazzi che hanno passato quasi quotidianamente del tempo dal vivo con gli amici si è ridotto di oltre il 40 per cento. Il fatto di seguirli su Snapchat non è nemmeno comparabile nel favorire la loro crescita psichica».La psicologa Twenge fissa il limite di tempo quotidiano da trascorrere davanti a un apparecchio elettronico in due ore, termine amplimanete superato in molti Paesi. Stando all’Ucla Loneliness Scale, il questionario con cui è possibile autodiagnosticarsi la solitudine, gli iGen si sentirebbero più soli di tutte le generazioni precedenti. L’iperconnettività in multitasking genera questo paradosso i social media generano relazioni quantitativamente ricche e qualitativamente povere, superficiali, dove si perdono gli indizi visivi. E non c’è la fisicità. Perché stavolta è diverso, rispetto alle precedenti tecnologie? «Intanto perché nessuna tecnologia precedente era così portatile, e quindi ubiqua, come gli smartphone». Il timore è che non si possa contare sul disarmo unilaterale da parte dei ragazzi, dunque cosa devono/possono fare i genitori per proteggerli? «La prima regola è che gli smartphone, nottetempo, non devono entrare in camera da letto. Con i più grandi si può tentare un’interlocuzione. Con i più piccoli un aiuto viene dalla tecnologia stessa, vale a dire app che spengono automaticamente il telefono dopo una certa ora, tranne per le chiamate. Io stessa ho contribuito a scrivere una lettera ad Apple, co-firmata dai fondi pensione degli insegnanti e altri investitori, per chiedere migliori controlli che aiutino i genitori. Android ne ha introdotti alcuni nelle settimane scorse. Qualcosa si muove». Lei stessa ha tre figlie adolescenti: le danno retta su questo regime mediatico? «I compagni di quella di 11 hanno già il telefono, mentre lei no. Quella di 14 ne ha uno basico, di quelli che chiamano dumb phone . A un certo punto avevo comprato un tablet per ognuno, poi man mano che procedevo con lo studio per questo libro glieli ho requisiti. Non è stato il dramma che temevo. La prima volta che gli dici di spegnere dopo un film si lamentano. Alla sesta ti dicono: ok, mamma. È il mestiere di genitore. D’altronde anche Steve Jobs limitava il tempo che i figli potevano passare con le sue creature». MMB

 

 

Fonte: R.S. di Repubblica



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