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Il Biblionauta - Acqua in bocca - di Vincenzo d'Aurelio

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Il governo italiano ha deciso di far gestire l’acqua ai privati (art. 23 bis del c.d. Decreto Ronchi 17/10/2009) in previsione di una diminuzione dei costi di gestione della distribuzione idrica, renderebbe più efficiente il servizio aumentandone anche la qualità dell’erogazione. Difatti, per far fronte ai pesanti costi di gestione degli acquedotti italiani (ad esempio, nel Sud l’indice di dispersione tocca il 60%), lo Stato dovrebbe investire delle grandi somme per sostituire gli antiquati impianti di distribuzione idrica e migliorare l’accessibilità dei cittadini all’acqua. La disastrosa situazione delle finanze pubbliche non permette, però, un investimento di tale importanza e perciò il Governo offre la possibilità ai privati di entrare a far parte del colossale affare del secolo. L’investitore privato è attratto dall’impiego del suo capitale poiché, quello dell’acqua, è un investimento altamente remunerativo e, secondo la legge, il cittadino avrebbe quale beneficio la garanzia di un servizio efficiente. Dovendo valutare la questione della privatizzazione dell’acqua come scelta finalizzata principalmente al bene pubblico non ci sarebbe nulla da eccepire in merito a quanto disposto dal legislatore ma, a ben riflettere, per un bene così prezioso come l’acqua, perché strettamente legato alla vita dell’uomo, è corretto pensare di concederlo in mano a un ristretto numero di imprenditori che potranno decidere modi, costi e qualità dell’erogazione? Il privato offre le stesse garanzie del pubblico sulla fruibilità dell’acqua che, si ricorda, è un diritto di tutti e non un privilegio di alcuni? La partecipazione dello Stato nelle società sarà in grado di salvaguardare l’acqua come bene primario e insostituibile dei cittadini oppure sarà travolto dall’interesse del privato? L’acqua è “l’oro blu” del domani e difatti attorno al suo commercio ruota, almeno in Italia, un fatturato di circa 4,5 miliardi di euro annui. Portando in mano privata questa grossa fetta di mercato, con una clientela che non potrà rifiutare il servizio poiché vitale, significa assegnare la gestione dell’acqua alla logica del profitto. Gli investimenti negli impianti vogliono dire rincari delle tariffe sulla bolletta idrica e, pertanto, saranno gli stessi cittadini a sostenere realmente i costi. I rincari delle bollette idriche sono le conseguenze non dette dal decreto Ronchi e se ciò non fosse vero basti guardare a ciò che è avvenuto in alcune città italiane dove l’erogazione è affidata a società private. A questo punto ci si troverà di fronte a famiglie che avranno il privilegio di potersi pagare le “bollette” e chi, invece, non sarà più capace di “acquistare” l’acqua. Come si comporterà il privato in caso di morosità? Come d’uso, legalmente autorizzato, si taglierà l’erogazione come accade con l’energia elettrica e con ciò, si può affermare, il nostro diritto alla vita sarà in mano alle logiche del denaro. E’ umanamente accettabile negare a un uomo un bicchiere d’acqua perché insolvente? E’ possibile condividere l’idea che a qualcuno sia vietata la toilette per la propria igiene e salute? Così come scrive Fulvio di Dio in “Acqua Sporca” (Ed. Riuniti, 2011), bisogna ribadire che “esistono dei servizi, come quelli idrici, che non possono essere privatizzati perché governando l’acqua significa assegnare lo scettro del comando a un manipolo di imprenditori”. L’interrogativo, pertanto, non è quello di decidere tra gestione pubblica o privata bensì tra il controllo dei beni essenziali e comuni come l’acqua e la delega totale dei servizi a pochi con il redditizio monopolio che ne deriva. Rinunciare all’acqua significa rinunciare a una parte della nostra sovranità perché l’acqua, come scritto nel Programma di Sviluppo dell’ONU nel 1966, “è troppo importante per la salute pubblica, la prosperità della nazione e il progresso umano per lasciarla a società con l’obiettivo di massimizzare i profitti, piuttosto che ottimizzare il rendimento sociale”. Quando l’Italia nel XIX sec. decise di detenere la gestione dell’acqua in mano pubblica, la motivazione fu dettata al fine di renderla fruibile a tutti e non solo a chi poteva permettersela pagando. Difatti, secondo il legislatore del tempo, questo era l’unico modo per evitare i conseguenti e gravi effetti sanitari e socio-economici che avrebbero investito, in caso di privatizzazione, la maggior parte della popolazione. Furono, quindi, la garanzia di salubrità e di distribuzione dell’acqua a rendere socialmente desiderabile un controllo pubblico sulla sua gestione, sulle tecnologie impiegate e sul livello dei prezzi di fornitura. Il referendum, per quanto esposto, ci obbliga moralmente a votare per il “SI” all’abrogazione dell’articolo di legge relativo alla privatizzazione dei servizi pubblici. Un altro “SI”, deve essere espresso per l’abrogazione del comma dove si stabilisce che la tariffa per il servizio idrico è determinata tenendo conto “dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito”. L’acqua un diritto di tutti e, come scrive Gino Strada dell'ONG italiana Emergency, “i diritti degli uomini devono essere di tutti gli uomini, proprio di tutti, se no chiamateli privilegi”. Non deve apparire una esagerazione credere che se oggi l’acqua diviene una merce, domani sarà la volta dell’aria.

Postato Venerdi 03 Giugno 2011 - 23:12 (letto 3263 volte)
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